Per chi se lo stesse chiedendo… sì, sono tornata al lavoro, e sono viva. (Ele, ma io ti aspettavo fuori dall’ufficio per soffiarmi addosso le bolle di sapone!!!)
E’ difficile tornare al lavoro dopo più di un anno e trovare qualche volto nuovo, il mio ufficio rinnovato (ma questa in fondo è una buona cosa J), nuove regole da rispettare. Sono anche scivolata e caduta di ginocchia davanti a tutti, ma questa sono io….
Non so some la pensate voi, ma al lavoro le regole che mi fanno impazzire non sono quelle vere, quelle dichiarate e conosciute, ma quelle non scritte. Sono quelle regole striscianti che si insinuano nei rapporti tra le persone (questo è amico/questo è nemico-con questa si può parlare-attenzione a quello perché è passato dalla parte del nemico). Lo so, accade in quasi tutti i posti di lavoro: le relazioni con le persone non sono facili, si tessono equilibri a volte difficili da capire e interiorizzare. Da un lato è indispensabile entrare a “sporcarsi le mani”, dall’altro le cose che succedono tra le persone al lavoro possono fare moooolto male. E qualcuno di certo ne sa più di me.
Io in queste cose non sono molto brava e mi sento sempre una tirocinante inesperta, una di quelle che fanno le fotocopie tutto il giorno e dopo sei mesi non hanno ancora imparato i nomi di tutti. Io sono un po’ così: sorrido quando mi viene da sorridere e mi arrabbio quando qualcuno mi fa arrabbiare, parlo con tutti senza dare troppe confidenze, ma anche senza il terrore che le cose che dico possano essere un giorno usate contro di me. Ho delle oggettive difficoltà a gestire la trama dei rapporti basati sulle alleanze, le strategie e le regole non scritte: ogni tanto ci resto impigliata e mi arrabbio con me stessa per non essere stata capace di prevedere, capire e agire di conseguenza. Stare a casa con Elisabetta mi ha permesso di non pensare a lungo a questi “problemi”, ma mi ha anche aiutata a dare un ordine di priorità diverso a ciò che accade nella mia vita.
Quindi, parliamo delle cose importanti: Elisabetta è stata brava a casa con la nonna, non ha pianto, non ha sfoderato la cantilena “Ma-MMa-Ma-MMa”, ha giocato con le mollette dei panni, mangiato caramelle (pochine, nééééé) e dormito. Per ora, niente scene di panico, niente pianti disperati, zero telefonate ansiogene della nonna.
In compenso, dopo essermi concessa il lusso di lavorare due giorni questa settimana, negli altri due sono rimasta a casa: Elisabetta ha l’enterite, che pare vada molto di moda questa stagione. Non vi nascondo che ho provato un leggero senso di frustrazione: odio fare le cose male, odio che qualcuno possa pensare che non ho voglia di lavorare, odio dover spiegare di febbre e vomitini. Ma odio anche l’idea di essere al lavoro mentre mia figlia non sta bene, e ha vinto questa parte di me.
Però…. Mi sono fatta delle domande in questi giorni. Non ho le risposte: non le ho sulle coliche, figuriamoci su queste!!
Ho come la sensazione che nonostante tutto quello che si dice in giro, sia ancora scontato che il carico della famiglia debba pesare sulle spalle delle donne. Anche questa è una regola non dichiarata, eppure a me è sembrato chiarissimo che la malattia di Elisabetta fosse un mio problema. Ma anche la gestione delle sue giornate è un mio problema, gli orari da far combaciare sono un mio problema. La casa, i pasti anche quando non ci sono, la lavatrice e la lavastoviglie sono un mio problema. Alzarsi alle 6 per preparare tutto per tutti, anche questo è un mio problema. Ora che ci penso, anche occuparmi del canarino Tito e mettere i semini sul terrazzo per gli uccellini infreddoliti e senza cibo, anche questo è mio problema.
La definizione giusta sarebbe: “sono –parola al plurale che inizia per ci e contiene due zeta- miei”.
Non mi sto lamentando dell’aiuto che ricevo o che vorrei, non è questo il punto.
Il fatto è che prima di fare qualcosa bisogna capire qual è il problema, pensarci e costruire qualche ipotesi di soluzione, pensarci ancora e scegliere l’ipotesi giusta. Questo io lo faccio per ogni cosa, dal pianificare la giornata di lavoro, scegliere tra il nido e la nonna, occuparmi delle cose più pratiche ... Il problema è che quando c’è un bambino in casa tutte le cose, dalle più complesse alle più semplici, vanno fatte tenendo conto di lui, dei suoi bisogni, dei suoi orari, delle sue abitudini. Non è impossibile né difficile, ma bisogna pensarci.
Io mi trovo a fare questo lavoro mentale mentre stiro, mentre vado in ufficio, mentre preparo la cena, mentre preparo una camomilla alle tre di notte, mentre cerco di decifrare il regolo posologico della Tachipirina sciroppo (per la cronaca: buonissimo!). Insomma, senza pause, tutto il giorno. Infatti ci scrivo anche un post…
Non so perché, ma ho la sensazione che occuparsi di tutto, pensare, trovare soluzioni ai problemi della famiglia siano ancora “cose da donna”. Ma lo sono perché siamo davvero più brave o solo perché siamo poco capaci di delegare? O forse perché ci chiudiamo a chiave dentro gli stereotipi contro cui lottiamo?
Donne, non voglio “provocare”, voglio solo capire se sono l’unica a scontrarmi contro questi problemi, voglio sapere a cosa pensate voi mentre stirate o mentre siete fuori a lavorare….
giuppy