Negli ultimi mesi mi sono accorta che parlo moltissimo, davvero molto.
Parlo tanto con Elisabetta: da quando ho capito che comprende tutto, mi sforzo di parlarle senza utilizzare troppi vezzeggiativi o nomignoli, mescolando termini di uso comune e vocaboli un pochino più complessi.
Il nostro rituale dell'addormentamento ruota intorno a coccole e solletico, ma la parte che amiamo di più è questa: ci stendiamo sul mio letto, una accanto all'altra, e parliamo. Per ora sono io che guido i discorsi, ma mi piace pensare che prima o poi sarà lei a tenere le redini... Ripercorriamo la giornata nei suoi elementi salienti: le cadute, le sgridate, i cibi mangiati; poi racconto cosa succederà il giorno dopo: chi la sveglierà, cosa farà, quando arriverò io (dopo pranzo, dopo la nanna...) e cosa faremo insieme. Elisabetta ama moltissimo questa manciata di minuti: di solito io racconto e lei arricchisce con particolari o con le cose che ricorda della giornata. A volte chiede dove sono le persone che ama (papà, soprattutto, ma anche Echica). Tutto ciò avviene in una cornice di coccole reciproche ma, siccome entrambe non ne andiamo matte, si concretizza in carezze sul viso e sulla testa molto leggere. Le dico sempre che la amo, che quando sarò lontana da lei la penserò e mi mancherà, che è una bambina stupenda. Finito il "dialogo", ci salutiamo e Elisabetta entra nel suo letto.
Non so bene come sia nato questo rituale: Elisabetta ha sempre avuto un buonissimo rapporto con il sonno e quindi non ho mai dovuto crearle le condizioni per dormire serenamente. Forse tutto è partito dal mio bisogno di stare con lei faccia a faccia, nel silenzio, di rassicurarla su quello che sarebbe successo il giorno dopo, di rassicurare un pò anche me, ma anche di iniziare a lanciare i semini del dialogo tra madre e figlia.
Arriveranno giorni in cui non avrà voglia di appoggiare la testa sul mio cuscino e raccontarmi la giornata, ma saprà che potrà farlo.
Con mia mamma ci siamo sempre un pò urlate la vita. Spesso ho avuto la sensazione che non avesse tempo per ascoltarmi, che non ci fosse mai un momento per me. Ho imparato a prendermi quei momenti, e lei ha imparato a concedermeli, così come ha imparato a rispettare i miei lunghi silenzi.
Con mio padre era un pò diverso.
La sua sensibilità e la sua capacità di stare in silenzio (identica alla mia) mi hanno raggiunta molte volte quando era qui, invogliandomi a raccontare, a parlare, convincendomi che di alcune cose si poteva anche ridere; aveva la capacità di esprimersi in maniera incisiva e con poche parole, dote rara di questi tempi.
La comunicazione con mio papà non si è ancora fermata, nemmeno ora. So che qualcuno mi prenderà per matta ma correrò questo rischio....
Gli racconto molte cose, la sera e la mattina. Succede soprattutto in macchina, nella sua macchina, con le mani sul volante che ha tenuto lui. La macchina in cui un giorno ho trovato un pezzo di serratura che gli apparteneva, e non sono mai riuscita a spostarla dal vano della portiera posteriore, dove l'aveva lasciata lui. Ogni tanto vado a prenderla, la giro nelle mie mani, e lo saluto.
Facciamo spesso dei patti, io e lui.
Lui mantiene sempre la parola, io non sempre (ma lo sa che sono fatta così, e mi lascia fare).
C'è una canzone che mi ricorda molto il nostro congedo su questa terra, e a volte ho ancora bisogno di riascoltarla, quindi lo avviso: papà, adesso ascolto Just Breathe e piango un pò per te, girati dall'altra parte.
Quando vado al cimitero, non riesco mai a parlargli. Dopo la sua morte, una sera ho avuto bisogno di cercarlo: era inverno, una sera molto buia, mi sono avvicinata al cancello chiuso del cimitero, ho guardato verso il suo lumicino e mi sono detta (decisamente ad alta voce): NO, tu non sei qui. Non sei davvero qui. Non c'è nulla di familiare nel luogo in cui si suppone tu stia riposando, in mezzo a sconosciuti. Non sei qui.
Mi rassicura pensare che non sia lì, ma qui. A volte seduto sul divano, mi sposto un pò per lasciargli il suo posto. A volte seduto accanto a me nella sua macchina, innervosito dalla mia guida distratta. A volte accanto a me mentre fumo, sulla panca di legno all'aperto.
Parliamo. O meglio, io parlo e lui ascolta.
In perfetta continuità con quello che eravamo.
A Elisabetta, un giorno spero lontanissimo, basterà appoggiare la testa sul cuscino per poter parlare con me, risentire la mia voce, forse solo per ascoltarmi raccontare che è stata una giornata piena e che le sono vicina.
E io, ovunque sarò, accetterò di sottostare a promesse che lei non riuscirà a mantenere (ma che argomenterà molto bene), in cambio di tutti i piccoli favori di cui potrò uccuparmi.
Ora, qui, dentro i miei panni di madre stanca e approssimativa, sento che la comunicazione tra un genitore e un figlio è qualcosa che va curato nel profondo, coltivato giorno per giorno, senza lasciare troppo al caso, nemmeno i silenzi.
Non esistono relazioni se non c'è comunicazione, non esiste amore senza la parola. Bisogna dirlo, che ci si ama.
Il titolo del post è solo perchè oggi mio padre avrebbe compiuto 70 anni, e sarebbe stato bello averlo qui.
L'anello nella foto è quello che mi ha fatto lui, da cui non mi separo mai e che spesso mi ricorda da dove vengo e dove sto andando. Ne ho sempre bisogno.
giuppy