venerdì 10 giugno 2011

Io e te, pensieri in ordine sparso.


Il primo ricordo che ho di te è una domenica pomeriggio, al bar dove lavoravo.
Tu stavi seduto dall’altra parte del bancone, da solo, leggevi il giornale e parlavi, poco.
Nella mia vita di finalmente single e finalmente felice alla soglia dei 30 anni, non c’era spazio per nessuno che potesse condividere con me più di qualche giorno o qualche serata. Sempre di corsa: il bar, l’università, i miei amici, le mie amiche.  Non c’era tempo e non c’era voglia di ricominciare una di quelle danze d’amore,  con corteggiamento e innamoramento,  “cosa facciamo stasera”, “dove andiamo quest’estate”, e via via fino a “senti, prendiamoci del tempo per pensare”. Io il tempo lo volevo solo per me.
Ma un giorno hai distolto gli occhi dal giornale, e mi hai vista. E il tempo che volevo solo per me ha iniziato una corsa inesorabile verso una vita che non avevo immaginato.

Quando è morto mio padre, sei stato nella sua stanza, da solo, mentre fuori noi piangevamo e chiamavamo e ci affannavamo e respiravamo l’aria che si era fatta di piombo. Tu sei stato lì con lui, che era appena morto: io lo so che gli hai detto qualcosa.
Ti è stato permesso di farlo,  perché  tu per mio padre eri come un figlio.
Anche se nessuno te l’ha mai detto.

Non siamo fatti per la vita tranquilla io e te, a noi piace che sia difficile, complicata, piena di ostacoli.
Io e te siamo nati nella stessa estate, ma in due ospedali diversi.
Siamo cresciuti a due km di distanza, senza mai incontrarci per 28 anni.
Dalla mia casa sentivo i rumori della palestra dove andavi a giocare a pallavolo, ma non ti ho mai visto.
Avevamo amici in comune, che non ci hanno mai presentati.
Se un giorno Elisabetta ci metterà nella stessa casa di riposo, litigheremo anche lì.

Dici che non parlo mai di te nel blog, perché la vita qui si è fatta difficile, le certezze tentennano e a volte c’è spazio solo per il rancore. Dici che non parliamo abbastanza, che i giorni scorrono nell’indifferenza trascinandosi dietro spezzoni di dialoghi come in un film di Wim Wenders.
Tu parli sempre di tante cose: a volte troppe, a volte solo di quelle che non sono importanti.  A volte parli troppo poco.
Io che invece nelle parole mi perdo, io che ho sempre la musica in testa  e tu che non la vuoi mai ascoltare.

Delle foto che abbiamo, quelle che mi piacciono di più non sono quelle insieme, inamidati e in posa al matrimonio o in vacanza: le mie preferite sono le foto che hai scattato tu a me, perché è attraverso i tuoi occhi che mi fai vedere chi sono. Come quella foto, a Parigi sotto la pioggia e il freddo, con un cappellino ridicolo. 
Tre giorni a ripeterci che Londra è più bella, e che dovremmo tornarci.


Sette anni fa la nostra vita insieme è iniziata, quasi per caso.
Auguri...

giuppy